Cosmologia e astronomia nel Vicino Oriente antico
Le navicelle spaziali e i viaggi su Marte hanno le loro origini, si può dire, nella bassa Mesopotamia (Iraq), quando 5000 anni fa i Sumeri inventarono la scrittura cuneiforme e iniziarono a registrare osservazioni dei fenomeni astrali. Nel corso della loro storia millenaria, le civiltà del Vicino Oriente antico svilupparono tecniche di calcolo matematico e geometrico di eccezionale livello. L’ambito in cui la scienza mesopotamica raggiunse il culmine della sofisticazione è proprio l’astronomia. Alcune delle scoperte fatte allora, come il calcolo integrale per la visualizzazione del movimento attraverso un grafico tempo-velocità nello spazio, dovettero aspettare il tardo medioevo per essere ‘riscoperte’; altre, invece, vennero recepite da Egizi, Greci e Romani e sono arrivate fino a noi: la divisione del cerchio in 360 gradi e lo zodiaco nascono qui!
Osserva da vicino una tavoletta cuneiforme, toccala per sentirne i cunei sotto i polpastrelli, prova tu stesso a imprimere i segni… E poi sali in cima a una ziggurat, calcola il novilunio con il sistema sessagesimale, guarda l’alba al solstizio d’estate dalla porta di un tempio ittita — esplora il cosmo e lo spazio con gli occhi degli antichi!
Online @ https://cuneiform.neocities.org/spazio/approfondimenti
1 Kudurru babilonese con simboli astrali
Scheda di approfondimento a cura di Beatrice Cavallaro
Scheda di approfondimento a cura di Adele D’Avino
3 Modellino del cosmo mesopotamico
Scheda di approfondimento a cura di Gianluca Del Vecchio
4 Stazione con ‘scuola scribale’ cuneiforme
Scheda di approfondimento a cura di Matilde Duranti
7 Copia 3D digitale di una tavoletta cuneiforme con un problema sulle distanze stellari
Scheda di approfondimento a cura di Giovanna De Notaris
8 Riproduzione 3D artigianale di una tavoletta cuneiforme con indicazione della data dell’equinozio
Scheda di approfondimento a cura di Birgit Grandi
11 Videoclip sugli aspetti astrali dell’architettura ittita
Calco di un kudurru babilonese, VIII sec. a.C.
Il kudurru (“confine”) registra una concessione di prebende templari fatta dal re babilonese Nabû-šuma-iškun al dignitario Nabû-mutakkil nell’VIII sec. a.C. a Borsippa (Iraq). Le divinità, garanti dell’atto, sono raffigurate nella parte superiore: tra queste Sîn, il dio Luna (mezzaluna), Šamaš, il dio Sole (disco solare), e Ištar, dèa del sesso e della guerra, identificata con Venere (stella a sette punte). Altri simboli divini corrispondono a segni zodiacali: riesci a scoprirli?
Oggetto: Berlino, Vorderasiatisches Museum, VA 3031. Ed. Paulus 2014, AOAT 51, 683–688.
Replica e foto: https://www.gipsformerei-katalog.de/sammlungsgebiete/vorderasien/1787/bestallungsurkunde-kudurru
Cos’è un kudurru? Introdotto a Babilonia a partire dal periodo di regno della dinastia Cassita (XVI secolo a.C.), questo tipo di reperto ottenne sin da subito l’appellativo di “boundary stone”. Generalmente, infatti, la maggior parte dei kudurru serviva a commemorare delle concessioni di “prebende”, dunque di rendite fondiarie, fatte dai re babilonesi. Di conseguenza, il testo si apriva di solito con un’accurata descrizione della terra legata al beneficio, comprese le sue caratteristiche e la misura della sua estensione. Proprio questa peculiarità diede modo ai primi assiriologi di identificare questi artefatti come “marcatori di confine” o, appunto “boundary stone”, per come si è soliti tradurre in inglese.
I kudurru a noi oggi noti sono categorizzati in base a tre caratteristiche:
I primi kudurru babilonesi si datano al XIV secolo a.C., mentre l’ultimo esempio a noi noto è databile all’incirca al VI secolo a.C.
Il kudurru del re Nabû-šuma-iškun è in calcare scuro, e risale al suo ottavo anno di regno (768 a.C.). In questo periodo, il sovrano babilonese cercò di espandere la propria sfera di influenza tramite anche il consolidamento di alleanze politiche con i governatori locali.
Il kudurru in questione testimonia infatti la concessione di un beneficio (ovvero un ufficio del tempio, provvisto di reddito) da parte del re a Nabû Muttakil, figlio del governatore della città di Borsippa.
Di solito, molte divinità vengono invocate all’interno dell’iscrizione dei kudurru. In questo caso, invece, se ne nominano solo due: Mār-Bīti (dio della guerra, attestato proprio a partire dal periodo cassita) e Nanaya (dea dell’amore e della sensualità, ma anche patrona degli amanti), che sono infatti le uniche due divinità ad essere rappresentate sul kudurru (insieme ad Ištar) in forma antropomorfa (le altre lo sono solamente tramite il proprio simbolo divino).
Il contenuto dell’iscrizione si apre appunto con l’invocazione a Mār-Biti e Nanaya, e con una lode a loro dedicata.
Si parla poi di come Mār-Biti e Nanaya stiano permettendo al beneficiario di “entrare nella cella del tempio di Nabu (dio cittadino di Borsippa e figlio di Marduk, re degli dei)”, rendendogli così l’onore di poter entrare a far parte dei cosiddetti “sacerdoti erib-bīti” o “entranti nel tempio”.
Sul kudurru ritroviamo sia la data del giorno in cui questa assegnazione di incarico è stata ufficializzata, sia l’elenco dei testimoni che presero parte alla cerimonia, fra cui figurano sia i fratelli che il padre di Nabû Muttakil, Ēda-Etir.
Il testo informa, inoltre, che le due divinità sopra citate hanno emesso un documento sigillato, affidandolo al beneficiario “per i giorni futuri”, e che dunque ufficializza questo evento.
Ultima ma non per importanza, troviamo la “formula della maledizione”, indirizzata a chiunque rompa o danneggi il kudurru in questione, nonché a chiunque vada contro le disposizioni degli dei riguardo la concessione del beneficio.
Tutti gli dei raffigurati sul kudurru, simbolicamente o meno che sia, hanno infatti la funzione di proteggere il kudurru e, di conseguenza, il beneficio ed il beneficiante.
Plastico ricostruttivo di una ziggurat
Le ziggurat erano edifici di culto caratteristici delle città dell’antica Mesopotamia: quella di Babilonia, chiamata in sumero “Etemenanki” (“casa della fondazione del cielo e della terra”), ha ispirato la leggenda biblica della Torre di Babele. La ziggurat è costituita da una successione di terrazze sovrapposte e collegate da scalinate. In cima alla terrazza più alta si trova il tempio vero e proprio: punto privilegiato di osservazione del cielo per sacerdoti e astronomi.
La mostra ha come suo filo conduttore la cosmologia e l’astronomia nel Vicino Oriente antico: questo interesse, questa propensione verso il cielo, verso gli astri, si può percepire e notare anche nelle loro architetture, in particolare negli edifici di culto delle città dell’antica Mesopotamia: le ziggurat.
Cos’è una Ziggurat?
La ziggurat è considerata l’evoluzione del “tempio a terrazze” d’epoca preistorica. Infatti, si tratta di un’architettura costruita da una successione di terrazze sovrapposte (da 3 a 7) e collegate da scalinate. In cima alla terrazza doveva trovarsi il tempio vero e proprio, che rappresentava un punto privilegiato di osservazione del cielo per personaggi che ne avevano accesso, dunque astronomi e sacerdoti.
Altri approfondimenti e curiosità
Un aspetto interessante della ziggurat è la sua connotazione religiosa. Nelle fonti sumere viene chiamata “Etemenanki” cioè “casa della fondazione del cielo e della terra” ed ha ispirato la leggenda biblica della Torre di Babele. È proprio questa sua altezza che le ha fatto acquisire una cattiva fama agli occhi della tradizione giudaica, che la considerava l’edificio simbolo della presunzione umana, che è stata distrutta da Dio per impedire agli uomini di raggiungere il cielo.
Siccome le civiltà antiche pensavano che le città in rovina fossero una maledizione divina contro i popoli che si erano resi cattivi, anche la tradizione islamica non ha una buona considerazione di questo edificio, pensando che siccome la Torre è stata distrutta, il suo popolo doveva aver fatto qualcosa di cattivo per aver meritato una punizione da parte di Dio.
«Il tuo Signore non è Uno che distrugga le città ingiustamente, quando i loro abitanti operano il bene.»
Purtroppo, nessuna ziggurat è giunta fino a noi intatta. La ziggurat di Babilonia venne alla luce solo nel 1913, e Koldewey dimostrò che era a pianta quadrata e a forma piramidale, ma una cosa curiosa è che la ziggurat aveva già acquisito un’immagine basata puramente sull’immaginazione degli artisti che la disegnavano. La ziggurat immaginaria era cilindrica, a pianta circolare, come una Torre di Pisa colossale, cosa assolutamente non vera, ma ormai l’immagine era così radicata che molti artisti rifiutarono l’evidenza archeologica e continuarono con le loro rappresentazioni fantasiose.
Quindi… se vi capita di vedere una ziggurat di queste fattezze, sapete il perché!
Plastico ricostruttivo del cosmo mesopotamico
Una tavoletta cuneiforme da Sippar ci da un’idea di come i Babilonesi immaginavano il mondo nel VI secolo a.C.: al centro scorre l’Eufrate, sulla cui riva è Babilonia; le terre emerse sono circondate dal mare, oltre cui stanno otto estreme e misteriose regioni. Nelle profondità della terra si immaginava un oceano d’acqua dolce, regno del dio Ea, mentre il cielo, cui presiedevano Anu ed Enlil, era diviso in 12 parti, identificate da altrettante costellazioni poi divenute il nostro zodiaco: le riconosci?
Nota anche come “Mappa mundi”, questa tavoletta di argilla è risalente al VI secolo a.C. Essa rappresenta il mondo e ciò che lo circonda come un disco ed è composto da due cerchi concentrici: uno interno e uno esterno.
Il continente
Al centro della mappa vediamo quello che rappresenta il continente terrestre, ovvero la Mesopotamia e alcuni territori circostanti. Le forme geometriche si riferiscono a varie località topografiche: sono indicate città come Susa, Der, o interi regni o regioni come l’Assiria. Nel rettangolo posto poco sopra il centro del disco vediamo rappresentata la città di Babilonia, posta su due linee parallele che ritraggono il fiume Eufrate, mentre il Tigri non è presente. Il fiume sfocia in un rettangolo diviso in due parti: “palude” a destra e “canale” a sinistra, in cui il canale era quello che collegava i fiumi Tigri ed Eufrate al mare. Un canale simile, lo Shatt al-Arab, esiste ancora oggi e collega questi due fiumi al Golfo Persico.
L’oceano e le regioni esterne
A separare i due cerchi concentrici è presente un anello d’acqua, il marratu, che si traduce in “fiume amaro”. Il marratu circonda l’intero continente terrestre, ma a sua volta è circondato da almeno cinque aree triangolari identificate come nagu, ovvero dei territori remoti situati al di là del mondo conosciuto. Nagu significa letteralmente “regione”, ma potrebbero essere anche delle isole o delle montagne. Come iscritto a lato di ogni triangolo, ogni regione distava dall’altra 6 o 7 beru. Il beru è un’unità di misura babilonese per il tempo e la distanza, in cui 1 beru corrisponde sia a 2 ore sia a 10.800 metri.
Il testo
Sulla tavoletta sono presenti due testi in scrittura cuneiforme: uno nella parte anteriore e uno in quella posteriore. Il testo non è conservato interamente, ma è possibile interpretarlo. Nella parte anteriore vengono descritti gli abitanti del continente, del marratu e dei nagu. Vengono elencati alcuni animali, sia reali sia fantastici, e alcuni personaggi storici (come Sargon) e mitologici (l’eroe del diluvio universale Ut-Napištim). Il testo sul retro è più lungo e contiene le descrizioni degli otto nagu, anche se quelli della mappa sono cinque. Vengono descritti luoghi desertici, montuosi, foreste e terre abitate da animali esotici. Nel colofone, la parte finale del testo, lo scriba si identifica come discendente di Ea-bel-ili, un altro scriba proveniente dalla città di Borsippa. Anche se la tavoletta è stata rinvenuta in un’altra città, a Sippar, è possibile che fosse stata composta proprio nella prima.
Scrivere in cuneiforme
Hai mai scritto il tuo nome in cuneiforme con uno stilo di canna su una tavoletta d’argilla? No??? È ora di provare! I Sumeri inventarono la scrittura cuneiforme attorno al 3000 a.C. usando i materiali che più di tutti abbondavano nella bassa Mesopotamia: l’acqua, l’argilla, e le canne dell’Eufrate e del Tigri. Lo stilo è ricavato da una sezione di canna, e i cunei si ottengono imprimendone un angolo nell’argilla ancora fresca. Provare per credere!
Gilgamesh ed Enkidu alla Foresta dei Cedri
Nel quinto libro del poema, Gilgamesh e l'inseparabile compagno Enkidu partono per la lontanissima Foresta dei Cedri, guidati da sogni prodigiosi e dagli astri. Il rilievo paleo-babilonese, oggi al Vorderasiatisches Museum di Berlino (VA 7246), mostra il momento in cui i due giovani e baldanzosi eroi uccidono il mostruoso Humbaba, guardiano degli alberi sacri, dopo che Shamash, il dio sole, gli ebbe scatenato contro i tredici “impetuosi venti di burrasca”.
L’epopea di Gilgamesh
Cos’è l’uomo? Cosa c’è ai confini del mondo? E soprattutto, perché esiste la morte? Sono le domande che si pone Gilgamesh, mitico re diz Uruk, nel suo straordinario viaggio alla ricerca della pianta della vita eterna, nel poema senza tempo che è il capolavoro letterario della Mesopotamia antica. Nel frammento VAT 4105 (ca. XVIII sec. a.C.), oggi al Vorderasiatisches Museum di Berlino, l’esausto Gilgamesh cerca Utnapištim, il Noè babilonese, che gli narrerà la storia del diluvio universale.
Provenienza: Sippar (?), a nord di Babilonia
Periodo: XVIII-XVII secolo a.C
Lingua: accadico
Materiale: argilla
Collezione: Vorderasiatisches Museum, Berlino (Germania)
Acquisito a Baghdad nel 1902, questo frammento, insieme ad un altro conservato però al British Museum di Londra (Inghilterra), ci ha tramandato un episodio che fa parte dell’epopea di Gilgamesh.
La tavoletta presenta due colonne per ciascun lato (in totale quattro) e doveva far parte di un’edizione integrale, inoltre, l’episodio raccontato nei frammenti corrisponde alle tavolette IX-X della versione standard della saga.
L’epopea in questione narra le imprese eroiche di Gilgamesh, tiranno della città-stato di Uruk, in Sumer, ma non solo, poichè si tratta di un racconto che narra la lotta dell’uomo per la conquista dell’immortalità, la maturazione interiore attraverso attraverso i successi e i fallimenti umani, e, infine, tratta anche il tema della regalità ovvero di che cosa il re deve e non deve fare.
Trama
Gilgamesh sta vagabondando in un territorio ignoto alla ricerca dell’immortalità. Il suo protettore, il dio del sole Shamash, lo avverte della futilità della sua ricerca, ma l’eroe non lo ascolta e continua il suo viaggio. Gilgamesh incontra una locandiera a cui racconta la sua storia e, soprattutto, della morte del suo caro amico-amante Enkidu e del suo proposito di raggiungere la vita eterna. La locandiera risponde esattamente come il dio Shamash: la ricerca della vita eterna è inutile poiché l’uomo è stato fatto mortale e Gilgamesh, come tutti gli altri uomini, deve cercare di godersi a pieno tutti i beni terreni messi a sua disposizione. Tuttavia, Gilgamesh è troppo addolorato per comprendere le parole della donna e gli chiede se c’è un modo per attraversare l’oceano e raggiungere l’eroe immortale Ūta-na’ištim, l’unico uomo sopravvissuto al Diluvio universale. Purtroppo il testo in questa parte è lacunoso e non ci è dato sapere la risposta della donna. Il racconto riprende quando Gilgamesh sta distruggendo Quelli di Pietra. Si avvicina alla scena Sursunabu, il barcaiolo, curioso di sapere il nome e la storia di colui che stava abbattendo i suoi rematori: < Gilgamesh è il mio nome [...] ora, Sursunabu, dov’è la via per Ūta-na’ištim, dimmelo! >. Il barcaiolo risponde che Quelli di Pietra gli servivano per attraversare l’oceano e chiede a Gilgamesh di tagliare trecento pali di sessanta cubiti ciascuno dotandoli anche di pomelli. Il frammento qui si interrompe ma sappiamo che l’eroe continua il suo viaggio alla ricerca dell’immortalità.
Copia 3D di una tavoletta babilonese da Nippur, XII sec. a.C.
Quanto dista una stella dall’altra? Questa è la domanda che 3000 anni fa l’autore di questa tavoletta pose ai suoi allievi. Non una domanda astratta: il maestro fornisce prima i dati per stelle come le Pleiadi (in babilonese zappu, le “setole” del Toro) e Sirio, poi la procedura. Il risultato è in beru, un’unità per misurare angoli ma anche tempo e spazio: si tratta allora di una distanza spaziale (ipotetica, non avendo alcun mezzo per misurarla) o, più verosimilmente, apparente sulla volta celeste? Nel secondo caso potrebbe essere stata usata per misurare il tempo, una necessità per cui la volta celeste si mostra come un grande orologio.
La tavoletta (HS 0245), conservata all’Università di Jena in Germania, di cui qui è presente una copia, proviene da Nippur, moderna Nuffar, in Iraq, ed è datata al periodo Medio Babilonese (1400-1100 a.C.). Si presenta come un problema matematico applicato all’astronomia ma in realtà i calcoli non hanno alcuna valenza astronomica e va quindi intesa come mero esercizio matematico.
TESTO | TRADUZIONE |
19 AD dSin MUL.MUL 17 AD MUL.[MUL] MUL.SIPA.AN.NA 14 AD MUL.SIPA.AN.NA MUL.KAK.TAG.GA 11 AD MUL.KAK.TAG.GA MUL.BAN 9 AD MUL.BAN MUL.ŠU.PA 7 AD MUL.ŠU.PA MUL.GÌR.TAB 4 AD MUL.GÌR.TAB MUL.AN.TA.GUB
ak-mur-ma 2 GÈŠ DANNA DINGIR ina UGU DINGIR ki ma-si ru-ú-qu
ZA.E KÌ.DA.ZU.DÈ 19 17 14 11 9 7 4 ku-mur-ma 1,21 ta-mar IGI 1,21 GÁL.BI 44,26,40
| 19 per (la distanza) Luna e Pleiadi 17 per Pleiadi e Orione 14 per Orione e Sirio 11 per Sirio e Qaštu (Cane maggiore) 9 per Qaštu e Arturo 7 per Arturo e Scorpione 4 per Scorpione e AN.TA.GUB
Ho sommato (gli intervalli) e (la distanza totale è) 2,0 (=120) bēru. Di quanto dista una stella dall’altra?
Tu, per la tua operazione, addiziona 19, 17, 14, 11, 9, 7, e 4; il risultato è (letteralmente “vedrai”) 1,21 (=81). Il reciproco di 1,21 è 44,26,40.
|
Il testo riporta anche il calcolo per ogni distanza come, per esempio, tra la Luna e le Pleiadi:
“Prendiamo il corrispettivo numero senza unità, ovvero 19 per la distanza tra Luna e Pleiadi, moltiplicato per 44,26,40. Ciò produce 14,4,26,50. Convertito è 28 bēru.”
L’unità di misura utilizzata è il bēru, unità di misura in tre dimensioni: lunghezza, tempo e misura dell’arco (un bēru equivale a 10 km, 120 minuti, 30°).
L’unica valenza astronomica è data, secondo D. Pingree, dalla sequenza di corpi celesti menzionati; ciò potrebbero far riferimento alla sera dell’equinozio d’autunno quando la Luna è in congiunzione con le Pleiadi, seguite, durante la notte, da Orione, Sirio, Cane Maggiore, Arturo, Scorpione e AN.TA.GUB, stella localizzata nella coda di Scorpione. La Luna e queste stelle ascendono in successione durante la notte del 15 del mese di Tašrītu, mese il cui nome deriva da šurrû, “inizio, che corrisponde al nostro settembre/ottobre. Il 15 di questo mese corrisponde al giorno dell’equinozio d’autunno.
Riproduzione artigianale di una tavoletta assira, VII sec. a.C.
In che giorno è l’equinozio? È una domanda cruciale per contenere lo sfasamento tra calendario lunare, allora usato in Assiria e Babilonia, e anno solare (tropico). Con questa breve missiva lo studioso di corte Nabua di Assur rispondeva al quesito informando il suo re. Il giorno, il 6 del primo mese Nisan, è dato come il risultato dell’osservazione dell’uguale durata di notte e dì (tramite orologio ad acqua), ma sappiamo che avevano gli strumenti per calcolarlo a priori secondo una procedura empirica. La riproduzione artigianale della tavoletta originale, fatta usando argilla e stilo come gli antichi scribi, è frutto dell’arte dello studioso Jeremiah Peterson.
La funzione di questa tavoletta cuneiforme era quella di informare il re sulla data precisa dell’equinozio primaverile di quell’anno. Lo scriba si chiamava Nabû‘a di Assur, la tavoletta risale al periodo di regno tra i sovrani neo-assiri Esarhaddon e Assurbanipal ovvero tra il 680 a.C. e 666 a.C. ed è stata ritrovata presso lo scavo della Biblioteca reale a Kouyunjik (Ninive). Gli scavi sono stati condotti dall’archeologo britannico Austen Henry Layard negli anni 40‘ e 50‘ del 1800, la maggior parte delle tavolette della Biblioteca reale di Ninive si trovano oggi presso il British Museum di Londra. Viene qui riproposta una riproduzione artigianale, cioè come gli antichi scribi, la tavoletta è stata eseguita su argilla fresca mediante l‘impressione di uno stilo su di essa, questo è il frutto artistico dello studioso Jeremiah Peterson.
Rigo | Traslitterazione | Traduzione |
1 | UD-6-KÁM ša ITI.BARAG | Il giorno 6 di Aprile (Nisan) |
2 | UD-mu ù mu-ši | Il giorno e la notte |
3 | šit-qu-lu | Erano in equilibrio (stessa durata tra giorno e notte): |
4 | 6 KASKAL.GÍD UD-mu | 6 “doppie ore” diurne |
5 | 6 KASKAL.GÍD mu-ši | 6 “doppie ore” notturne. |
r.1 | dPA dAMAR.UTU | Nabû e Marduk |
2 | a-na LUGAL BE-i-ni | Il re nostro signore |
3 | lik-ru-bu | Possa benedire |
Glossario:
UD (ūmu): giorno; ITI.BARAG: logogramma che indica i mesi; mūšu: notte; šaqālu: pesare, essere in equilibrio; KASKAL.GÍD (bēru): “doppie ore” dodicesima parte della giornata; dPA: logogramma del dio Nabû, dio della scrittura e della saggezza figlio di Marduk; dAMAR.UTU: logogramma di Marduk re degli dèi; BE (abbreviazione di bēlu): signore; karabū: benedire.
L'equinozio primaverile come quello autunnale e i solstizi, venivano calcolati mediante strumenti dell’epoca. In particolare, grazie alla scoperta della Biblioteca reale di Ninive sono state ritrovate delle tavolette di argilla che formavano un compendio di astronomia e astrologia chiamato MUL.ALPIN. Nella tavola delle ombre veniva indicata l’ora del giorno in base alla lunghezza dell’ombra che si creava grazie a un’asticella verticale (probabilmente lunga 1 cubito pari a 50 cm) fissata nel terreno. Per i due equinozi era stata calcolata la lunghezza dell’ombra compresa tra 3 e 1 cubiti (che coincidono con la data ideale del 15 di Aprile e del 15 di ottobre), mentre per i solstizi la lunghezza dell’ombra era compresa fra 10 e 1 cubito (che coincide idealmente con il 15 di luglio e il 15 di gennaio). Un altro strumento utilizzato era l’orologio ad acqua a deflusso che consisteva in un recipiente a forma cilindrica. Questo orologio misurava il tempo a seconda del peso dell'acqua che scorreva da esso. Al variare delle stagioni variava il peso dell’acqua posto nel cilindro e quindi cambiava anche la durata del giorno.
Riproduzione fotografica di una tavoletta babilonese, 22 dicembre 103 a.C.
Come calcolare l’inizio del mese lunare senza conoscere la spazialità delle orbite della Luna e della Terra? Bisogna avere a disposizione dati osservativi raccolti su un lunghissimo arco di tempo. Questa grande tavoletta con effemeridi lunari (tersitu) testimonia la precisione raggiunta dagli astronomi babilonesi al tramonto della loro cultura. Nell’immagine si riconoscono i segni numerali (il cuneo ad angolo indica 10 unità, quello verticale 1) disposti in colonne corrispondenti ai parametri come in un foglio Excel (ma calcolati a mano), mentre le righe corrispondono ai noviluni degli anni 103–101 a.C. Riesci a leggere le cifre nella 3a e 4a colonna della prima riga? Sono 2:40 e 1:40 in ore e minuti sessagesimali. Indicano la durata del dì e di metà della notte. Quante ore contavano in un giorno? Grazie a questa tavoletta è stato possibile ricostruire una delle due procedure usate in Mesopotamia per calcolare la posizione apparente della Luna.
Scorri la trascrizione della tavoletta sullo schermo e tocca le colonne per scoprire che dati contenevano e come erano calcolati.
Guarda l’andamento periodico dei dati nelle colonne. È il risultato di quella che oggi chiamiamo “funzione lineare a zig-zag”. Confronta, nella parte destra, i noviluni calcolati secondo una moderna teoria planetaria semi-analitica (VSOP) e valuta l’entità dello scostamento. Tieni presente che il calcolo del novilunio non era fine a se stesso ma aveva la finalità pratica di calcolare l’inizio del mese lunare. I modelli matematici di oggi sono il risultato di secoli di studi cominciati con gli astronomi greci e romani, in particolare Claudio Tolomeo (II sec. d.C.) il quale usò effemeridi babilonesi come questa per formulare la sua teoria planetaria.
Riproduzione artigianale di una tavoletta assira da Ninive, 663/662 a.C.
Nibiru è il nome di un oggetto celeste che compare nei testi mesopotamici. Secondo lo scrittore Zecharia Sitchin (1920–2010) è il nome di un pianeta solare oltre Plutone. In questa tavoletta uno studioso alla corte del re assiro Assurbanipal segnala l'osservazione di una congiunzione tra Giove e Luna. L’evento, avvenuto nell’alone (tarbasu) della Luna, si prestava a interpretazioni astrologiche considerate rilevanti per il benessere pubblico e lo studioso le riporta testualmente dai manuali di riferimento. In uno di questi si spiega che Nibiru è un appellativo di Giove e non un altro pianeta. Riproduzione artigianale di Jeremiah Peterson.
Architettura ‘astrale’ nell’Anatolia ittita
Arroccati tra le rupi e montagne dell’Anatolia centrale, gli Ittiti (XVII–XII sec. a.C.) riuscirono a trasferire i risultati delle loro osservazioni astronomiche nell’architettura: Il sito di Kuşaklı, l’antica Sarissa, e quello della capitale Hattusa (oggi Boğazkale), offrono un esempio affascinante di come l’orientamento e le caratteristiche di molti edifici sia basato sulla misurazione di solstizi ed equinozi, e sugli effetti scenografici che in questo modo si potevano ottenere.